lunedì 27 aprile 2020

Veganismo: latte e derivati, parte 2


Su questo alimento esistono svariate luoghi comuni: “il latte causa il cancro”, “il latte causa osteoporosi”, “il latte non è un alimento naturale” sono solo alcune delle frasi che si possono trovare su internet. Cerchiamo di capire per bene se c’è qualcosa di vero o sono solo leggende metropolitane: non tutte le indicazioni prudenziali sul latte sono da scartare al 100%, spesso si tratta di avere solo un approccio meno intransigente per riuscire a trovare la verità. Prima di tutto presentiamo cosa è il latte.
La definizione a norma di legge (art. 15 r.d. 994 del 9 maggio 1929) del latte è: il prodotto ottenuto dalla mungitura regolare, ininterrotta e completa della mammella di animali in buono stato di salute e di nutrizione[1]. La maggior parte della produzione avviene nei paesi europei (compresi quelli extra UE), 24%, e in Nord, Centro e Sud America con un 29% complessivo, invece alcune regioni molto popolate hanno un apporto relativamente basso: per esempio le regioni asiatiche hanno in totale il 60% della popolazione mondiale, ma non raggiungono il 30% della produzione mondiale di latte, contro la regione europea che ha solo il 3% della popolazione mondiale. Forse è per questa sproporzione che molti pensano sia un alimento da evitare: se la maggior parte della popolazione fa un consumo tutto sommato modesto di questo alimento deve essere frutto di un qualche tipo di abitudine occidentale, quindi per definizione sbagliata.
Cominciamo ad analizzare alcune delle affermazioni sopra riportate.

Il latte causa il cancro

La letteratura scientifica è ricca di studi che analizzano il legame tra consumo di latte e latticini e il rischio di sviluppare un cancro, e anche di analisi che prendono in considerazione i dati di più studi sulla stessa patologia (le metanalisi) per dare maggior autorevolezza ai risultati delle singole ricerche e fare in un certo senso il punto della situazione. Nel 2018 è stata pubblicata sulla rivista BMJ Open una panoramica delle revisioni sul tema, partendo dall’analisi di 42 pubblicazioni dal 1991 al 2017 sull’impatto del consumo giornaliero di latte e latticini, gli autori giungono alla seguente conclusione:

“The association between dairy consumption and cancer risk has been explored in PMASRs with a variety of study designs and of low to moderate quality. To fully characterise valid associations between dairy consumption and risk of cancer and/or mortality rigorously conducted, PMASRs including only high-quality prospective study designs are required.”[2]

In definitiva servono studi di alta qualità e condotti secondo protocolli specifici per poter davvero caratterizzare la relazione tra latticini e cancro. Guardando più in dettaglio i risultati si nota che:

  • per i tumori del tratto gastrointestinale (esofago, stomaco, pancreas e colon-retto) alcuni lavori mostrano una diminuzione del rischio di ammalarsi associata al consumo di latticini, mentre altri non trovano legamisignificativi;

  • per i tumori che dipendono dagli ormoni (prostata, seno, endometrio e ovaio), i risultati sono ancora più eterogenei e lo stesso vale per tumori che colpiscono rene, tiroide e polmone.

Una revisione della letteratura pubblicata su Scientific Report nel 2016, in cui sono stati riviste 32 pubblicazioni, è arrivata alla seguente conclusione:

“In conclusion, our meta-analysis demonstrates that dairy product or calcium intake is not significantly associated with lung cancer risk. Although it is a negative finding, it provides a conclusive answer to the issue, and reveals an intrinsic connection based on the current evidence.”[3]

Ancora uno studio dell’ottobre 2019 i cui risultati sono stati pubblicati su JAMA Oncology suggerisce:

“Dietary fiber and yogurt consumption was associated with reduced risk of lung cancer after adjusting for known risk factors and among never smokers. Our findings suggest a potential protective role of prebiotics and probiotics against lung carcinogenesis.”[4]

E di esempi come questo la letteratura scientifica è colma ed orientarsi nella marea di studi disponibili è decisamente complesso. Per avere un quadro più chiaro è però possibile affidarsi alle conclusioni riportate dagli esperti nel Rapporto 2018 su Dieta, nutrizione, attività fisica e cancro pubblicato da World Cancer Research Fund (WCRF)[5]. Dopo aver analizzato la letteratura disponibile, i ricercatori hanno identificato una probabile diminuzione del rischio di sviluppare un tumore del colon-retto legata al consumo di latte e derivati, mentre le prove sono limitate per quanto riguarda la diminuzione del rischio di tumore del seno in pre-menopausa. Presenti, seppur limitate, anche prove a sostegno di un aumento del rischio di ammalarsi di tumore della prostata.
Nonostante molti punti siano ancora da chiarire, i dati disponibili non fanno pensare a un’associazione tra consumo di latte e derivati e aumento del rischio di tumore. Per quanto riguarda il tumore del colon-retto, sembra addirittura che sia vero il contrario, e che questi alimenti possano avere un effetto protettivo. In attesa che si arrivi a risposte più chiare è opportuno seguire le raccomandazioni degli esperti e non eccedere nel consumo, incorrendo in possibili effetti dannosi (per esempio problemi cardivascolari).

Il latte causa l’osteoporosi

Per quanto riguarda l’osteoporosi, molti pensano che il latte (e i latticini) siano pericolosi per la salute delle ossa. La ricchezza in proteine del latte influirebbe sul mantenimento del pH del sangue, che ricordo è compreso tra 7.35 e 7.45. La teoria vuole che un maggiore introito proteico abbassi il pH del sangue, che dovendo rimanere fisso costringe il corpo a creare dei tamponi chimici contenenti calcio, che poi vanno smaltiti con le urine, causando quindi una perdita netta di calcio. Contro questa ipotesi esistono diversi articoli che dimostrano il contrario, per esempio uno studio del 2010 in cui si dimostra che un maggiore introito di proteine non fa che migliorare la condizione delle ossa, prevenendo l’osteoporosi[6], altri invece portano alle conclusioni che l’assunzione di latte e derivati non aiutino a prevenire l’osteoporosi[7-8]. Anche fosse vera, comunque, il latte intero apporta 3.3 g di proteine su 100 g di prodotto, una colazione abbondante è mediamente da 300 g di latte, cioè circa 10 g di proteine. Sono tante? Per saperlo dobbiamo considerare i fabbisogni suggeriti, che ci dicono che la quota proteica raccomandata è di 0.9 g di proteine per ogni kg di peso corporeo[8]. 10 g di proteine quindi corrispondono a circa un quinto del fabbisogno quotidiano di una donna da 55.5 kg circa. Non proprio una gran quantità. Al di là delle proteine, ci si potrebbe comunque chiedere se il latte abbia un qualche effetto sulla perdita di calcio. Anche quest’ipotesi è stata smentita da un ampio lavoro[9]: non esiste prova che il latte abbia un effetto sul pH del corpo. In conclusione, dalla letteratura scientifica non arriva una risposta definitiva né che il latte curi l’osteoporosi né che la provochi: gli studi più recenti confermano l’assoluta indifferenza tra chi consuma latte e latticini e chi non li consuma nella prevenzione di questa malattia.


Il latte non è un alimento naturale

In effetti il nostro organismo è “programmato” per consumare il latte materno nelle prime fasi della vita grazie a un enzima, la lattasi, che permette di digerire il lattosio (lo zucchero presente nel latte) dividendolo nelle sue due componenti, galattosio e glucosio. Con l'avanzare dell'età, la quantità di lattasi nell’organismo spesso diminuisce, ecco la ragione alla base delle difficoltà di molte persone nel digerire latte e latticini che, in alcuni casi, può trasformarsi in una vera e propria intolleranza al lattosio. Proprio la “natura”, però, è intervenuta con modifiche a livello genetico nel corso dei millenni, consentendo ad alcuni soggetti di mantenere buoni livelli di lattasi anche in età adulta e potersi cibare così di latte senza problemi. È un classico esempio di evoluzione. Sembra che la capacità di digerire il latte sia comparsa soprattutto in quelle popolazioni di allevatori che trovavano un vantaggio selettivo nel mangiare questo alimento. Il motivo per cui gli uomini, o meglio, soprattutto alcune popolazioni specifiche, abbiano sviluppato questa capacità non è chiara, esistono varie ipotesi ma nessuna conclusiva, si sa solo che è una risposta adattativa a una pressione selettiva ambientale1[0-11]. L’intolleranza al lattosio è effettivamente la situazione normale se consideriamo i mammiferi in generale: nessun animale normalmente si ciba di latte in età adulta, così nessun animale, normalmente, conserva la capacità di digerire il lattosio, in definitiva è stata una mutazione che permette agli esseri umani di bere latte questa mutazione non è artificiale, ma è assolutamente naturale!
In conclusione, la capacità di bere latte appare come una chiara risposta a carenze alimentari.

Il latte contiene pus

Questa voce deriva dal fatto che sia inevitabile trovare, nel latte crudo, contaminazioni di cellule somatiche, ovvero cellule epiteliali e globuli bianchi. Probabilmente molti pensano che questa composizione sia la stessa del pus, quindi fanno l’equivalenza. Però questa non è una reazione infiammatoria come quella da cui deriva il pus, ma la normalissima composizione del latte. Pensiamoci un attimo: l’allattamento da madre a figlio per l’uomo (e non solo) ha anche un altro ruolo oltre quello del nutrimento: la copertura immunitaria. In pratica l’allattamento è il modo in cui la madre aiuta a far rimanere in salute il cucciolo. Nella vacca vengono quindi passati anche globuli bianchi, che comunque la comunità europea regola finemente[12]. In ogni caso, il numero di cellule può effettivamente servire come campanello d’allarme per scovare eventuali infezioni della vacca, e la legge europea impone che se si superano i limiti si debbano avvertire le autorità sanitarie, prendendo tutte le misure del caso.

In conclusione: è normale trovare cellule all’interno del latte, finché non superano un certo numero — e allora segnalano un’infezione — non c’è alcun pericolo, e di certo non è pus, che è il risultato di una potente reazione immunitaria.

Altre amenità intorno al latte li potete trovare sul sito dell’AIRC[13] e sul blog Dietcuriosity.

Bibliografia

1. Latte nell’Enciclopedia Treccani. 

2. Maya M.Jeyaramn et. Al. “Dairy product consumption and development of cancer: an overview of reviews” BMJ Open, 2018: CRD42017078463.

3. Yang, Y. et al. Dairy Product, Calcium Intake and Lung Cancer Risk: A Systematic Review with Meta-analysis. Sci. Rep. 6, 20624; doi: 10.1038/srep20624 (2016).

4. Jae Jeong Yang et al. “Association of Dietary Fiber and Yogurt Consumption With Lung Cancer Risk” JAMA Oncol. Published online October 24, 2019. doi:10.1001/jamaoncol.2019.4107.

5. WCRF-AICR Diet and Cancer Report. Available at: http://www.dietandcancerreport.org/.

6. Cao JJ, Nielsen FH. Acid diet (high-meat protein) effects on calcium metabolism and bone health. Curr Opin Clin Nutr Metab Care. 2010;13(6):698–702. doi:10.1097/MCO.0b013e32833df691.

7. Feskanich D, Willett WC,Stampfer MJ, Colditz GA. Milk, dietary calcium, and bone fractures in women: a 12-year prospective study. Am J Public Health 1997;87(6).992-7. Available at:https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/9224182.

8. Feskanich D, Willett WC, Colditz GA. Calcium, vitamin D, milk consumption, and hip fractures: a prospective study among postmenopausal women. Am J Clin Nutr. 2003;77(2):504–11. Available at: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12540414

9. Fenton TR, Lyon AW. Milk and acid-base balance: proposed hypothesis versus scientific evidence. J Am Coll Nutr. 2011;30(5 Suppl 1):471S–5S. Available at: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22081694

10. Tishkoff SA, Reed FA, Ranciaro A, et al. “Convergent adaptation of human lactase persistence in Africa and Europe.” Nat Genet. 2007;39(1):31–40. doi:10.1038/ng1946.

11. Evolutionary Adaptation and Positive Selection in Humans. Available at: http://www.nature.com/scitable/topicpage/evolutionary-adaptation-in-the-human-lineage-12397” 2014. 

12. EUR-Lex – 31992L0046 – IT. Available at: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:31992L0046&from=IT. Accessed August 10, 2014

13. AIRC “Latte e latticini aumentano il rischio di cancro?”, 2020.

giovedì 23 aprile 2020

Veganismo: l'evoluzione, parte 1

Al di là delle implicazioni etiche e filosofiche sul fatto che sia migliore, per la salute umana, una dieta: onnivora, vegetariana o vegana, vorrei soffermarmi per capire cosa dice sull’argomento il mondo scientifico evitando inutili allarmismi.
Premetto che sono dell’idea che gli animali vadano rispettati e curati, sono fermamente contrario allo loro sfruttamento in allevamenti intensivi e innaturali, ma il punto è avere un’idea chiara se effettivamente gli esseri umani possano o meno mangiare la carne.
Credo che il punto di partenza sia quello evoluzionistico, andiamo quindi alle radici della nostra storia.

L’antenato comune dei primati

Risalire all’antenato comune dei primati non è cosa semplice, allo stato attuale le nostre conoscenze desumono che circa 85 - 95 milioni di anni fa, durante il Cretaceo alcuni appartenenti alla classe dei mammiferi si divisero dai Laurasiatheria formando il superordine degli Euarchontoglires da esso ebbe origine l'ordine dei primati, di cui fanno parte l’uomo e tutte le scimmie.
Nel Miocene, 18 milioni di anni fa, da appartenenti a quest'ordine, si pensa in particolare a Proconsul (ma non tutti i paleoantropologi sono d’accordo) un arboricolo e frugivoro, si diramarono le scimmie antropomorfe: Hylobatidae 18 ma (per capirci i gibboni), Orango 11 ma, Gorilla 9 ma, Scimpanzé e Bonobo 5-6 ma, riunite con l'uomo, ad eccezione dei Gibboni, nella famiglia degli Ominidi. Circa 15-20 milioni di anni fa gli ominidi continuarono a colonizzare ambienti di foresta tropicale ma iniziarono anche a frequentare le savane in cerca di cibo. Una delle ipotesi sostiene che la pressione selettiva favorì quegli individui capaci di ergersi sugli arti posteriori potendo così, ad esempio, avvistare in anticipo un predatore. Iniziò così l'evoluzione fisiologica e poi culturale di questi primati che li condusse anche ad afferrare, trasportare, scegliere cibo e altri oggetti.
Oggi, la moderna tassonomia, definisce gli ominidi la famiglia dei primati che riunisce le grandi scimmie antropomorfiche (gorilla, scimpanzé e bonobi) e gli esseri umani.
Nella figura sotto riporto quello che attualmente è il nostro albero genealogico più probabile



Allora andiamo al succo della questione, cerchiamo una risposta alle domande più comune.

Come mai i nostri più stretti parenti (gorilla, scimpanzè e bonobo) sono erbivori, noi invece siamo onnivori? 

Premettendo che tra gli scimpanzè, i bonobo e l’essere umano intercorre una divisione evoluzionistica di almeno 6 milioni di anni, la letteratura in merito smentisce che queste scimmie siano vegetariane, anzi: lo scimpanzè integra almeno il 3% della sua alimentazione con proteine animali (insetti, uccelli, uova, piccoli mammiferi e altri primati, in particolare la sua preda preferita è il colobo rosso), stessa cosa i bonobo[1]. Nei scimpanzè sono stati documentanti anche casi di cannibalismo[2-3-4], forse rituale.

Quando l’essere umano ha sviluppato una dieta onnivora?

Durante l'evoluzione, gli ominidi hanno subito una variazione degli schemi alimentari dovuti ad una molteplicità di fattori. Si rileva, addirittura che l'onnivorismo risale all'indietro nel tempo, accomunando panini (scimpanzé e bonobo) e ominini a questa dieta, differenziandoli da altre linee evolutive[5] e accertato che l’Australopithecus (4-1,9 milioni di anni fa), aveva un range alimentare del tutto simile a quello di Pan troglodytes (scimpanzè), tanto per fare un esempio. Seppur principalmente vegetariano, è provato che si nutrisse anche di altri animali, probabilmente carcasse, già dalla sottospecie Australopithecus afarensis (3,7-3 milioni di anni fa), decisamente arcaica. Questo è probabilmente dovuto al graduale passaggio all'ambiente delle savane, rispetto a quello delle foreste di origine. Tuttavia, è da sottolineare come Australopithecus avesse una dentatura più robusta rispetto a quella di Homo (parlando di molari e premolari), indice di una dieta maggiormente indicata a radici e vegetali "consistenti" rispetto alla nostra, ed ai nostri più prossimi progenitori. Durante le varie fasi della sua evoluzione. le varie specie ominini impiegavano caccia, pesca e raccolta quali fonti primarie di cibo[6], alternando ai vegetali spontanei le proteine animali, e precedendo nella storia evolutiva il reperimento di tali proteine tramite comportamenti saprofagi[7] (comportamento alimentare largamente diffuso in H. habilis). Si è provato che il genere Homo abbia usato il fuoco sin dal tempo della predominanza dalla specie Homo erectus[8] che del fuoco faceva documentato uso, probabilmente anche per preparare e cucinare cibo prima di consumarlo.
L'uso del fuoco è diventato comunque documentatamente regolare nelle specie H. sapiens e H. neanderthalensis. Si ipotizza, su basi scientifiche, che un motore evolutivo per H. erectus, il primo ominide in grado di cuocere i cibi sia stato costituito dal ricavare, con la cottura, più calorie dalla dieta, diminuire le ore dedicate all'alimentazione superando le limitazioni metaboliche che negli altri primati non hanno permesso un'encefalizzazione e uno sviluppo neuronale legato alle dimensioni del cervello in proporzione alle dimensioni corporee[9] Questo, unito ad un crescente consumo di proteine animali, documentatamente ascritto alla separazione Homo-Australopithecus, o H. habilis-H. erectus[10-11], avrebbe costituito un potente impulso evolutivo.
In conclusione, il genere Homo appare avere una dieta onnivora fin dalla sua comparsa, quindi in grado di consumare una grande varietà di materiali vegetali e animali.

La dentatura umana non permette una dieta onnivora

La nostra dentatura è molto diversa da quella degli erbivori, ma presenta anche molte caratteristiche che confermano che l'uomo è un animale onnivoro: non abbiamo denti a crescita continua, non abbiamo molari atti a triturare i vegetali, ad esempio gli erbivori hanno molari con superficie masticatoria ampia, piana, con invaginazioni dello smalto che grazie a movimenti latero-laterali della mandibola, triturano i vegetali. Nel nostro caso, nonostante la mandibola ci consenta di effettuare questi movimenti, i molari pluricuspidati ce li impediscono, nessuno "mastica" sfregando i denti i denti tra loro ma utilizziamo i movimenti laterali della mandibola solo per aggiustare la posizione del cibo tra i denti e non per la masticazione vera e propria, che avviene con movimenti verticali. I nostri incisivi, oltre ad essere a crescita determinata (non crescono all'infinito), non si sovrappongono superiori con inferiori durante l'occlusione, inoltre a livello del canino e del primo premolare, la nostra dentatura è molto adatta a tranciare un pezzo di carne, svolge, infatti, un’azione simile a quella dei denti ferini dei carnivori, ai quali difatti assomigliano.
Se invece intendiamo erbivoro nel senso di frugivoro, allora la nostra dentatura è molto utile nel mangiare frutta, esattamente come lo è nel mangiare insetti e carne. Ma se non servisse per la carne perché sarebbe così appuntita? E soprattutto, in quanto animali onnivori, perché il fatto che sia adatta all’assunzione della frutta dovrebbe escludere l’assunzione della carne? Seguendo questo ragionamento, non solo non saremmo onnivori noi ma non esisterebbe nessun onnivoro sulla Terra.
Volendo essere puntigliosi, si può aggiungere che i nostri molari sono pluricuspidati e sono decisamente più simili a quelli dei carnivori e degli onnivori che a quelli di qualsiasi erbivoro. Primati esclusi, tra gli animali domestici, quello con la dentatura più simile alla nostra è il maiale, guarda caso un onnivoro.
In ogni caso solo l'onnivorità può giustificare una dentatura completa e soprattutto così polifunzionale come quella dell'uomo. In ortodonzia infatti si definisce la dentatura umana come non specializzata appunto caratteristica si una specie onnivora. Infine, dopo la scoperta del fuoco, l’abitudine di cuocere i cibi sembra aver favorito la riduzione dei canini[12].

Il nostro metabolismo non permette di digerire la carne.

Uno dei punti cruciali è la mancanza dell’enzima urato ossidasi (o uricasi): la mancanza di questo enzima nei primati (in tutti i primati), tuttavia, non ha alcuna rilevanza, è, infatti, una caratteristica peculiare di questo ordine (infatti, manca in tutti i primati: sia frugivori che onnivori). Questo enzima serve a degradare l'acido urico prodotto dal catabolismo delle purine e, tolti i primati e qualche altra eccezione (per esempio nel cane Dalmata l'urato ossidasi ha un'attività estremamente ridotta rispetto agli altri animali) , lo hanno tutti i mammiferi: i carnivori, gli onnivori e gli erbivori (lo ha il gatto, lo ha il maiale, lo ha il bovino).
Nei primati il gene che codifica per l'urato ossidasi è stato disattivato da due mutazioni (risalenti all'incirca al miocene) favorite poi dalla selezione, molto probabilmente, per il vantaggio di poter sfruttare il potere riducente dell'acido urico, proteggendosi così dall'azione dei radicali liberi, diminuendo, tra le altre cose, l'incidenza dei tumori.
Altro punto è l'incapacità dell'uomo di metabolizzare le ptomaine. L’uomo non può, infatti, metabolizzare: cadaverina e putrescina,
La cadaverina, presente ad esempio in urine e sperma umani, è prodotta normalmente in ognuna delle nostre cellule per diversi motivi: ad esempio è un importantissimo fattore che media diverse tappe della divisione cellulare e della sintesi proteica, deriva dalla decarbossilazione dell’amminoacido lisina, contenuto in grandi quantità nella carne, nel latte, nelle uova e, parimenti, come tanto decantato dagli stessi vegetariani, nei legumi. Quindi se volete evitare la bassissima tossicità della cadaverina non mangiate i legumi, niente fagioli, niente tofu, in sostanza: niente proteine! La putrescina, analogamente alla cadaverina, è una sostanza normalmente prodotta dal nostro organismo, sintetizzata a partire dall’ornitina ed utilizzata per produrre spermina, normalmente presente nel nucleo e nei ribosomi di qualsiasi cellula eucariotica. La putrescina viene altresì prodotta, ad esempio, nel tessuto nervoso dopo una crisi epilettica, per poi essere convertita in GABA (un neurotrasmettitore) per proteggere il cervello da crisi successive, contrastandone un’immediata insorgenza. La putrescina deriva dalla degradazione delle proteine, precisamente dalla decarbossilazione di ornitina e arginina, che si trovano in tutte le proteine animali e vegetali e anche in forma libera (anche nelle piante), se volete evitare anche la tossicità della putrescina non mangiate proteine, né animali, né vegetali[12].
Come vedete, né la putrescina, né la cadaverina, sono questi terribili veleni. 

L’intestino umano è troppo lungo


La lunghezza intestinale dell'uomo è la stessa degli animali onnivori. L'affermazione per cui il nostro intestino sarebbe troppo lungo e quindi inadatto ad ospitare la carne, in quanto andrebbe in putrefazione soggiornandovi per troppo tempo, è priva di ogni fondamento.
Il nostro intestino tenue infatti è lungo dagli 8 ai 9 metri: qui il cibo viene demolito e ridotto a sostanze più semplici per essere assorbite. Quindi passa nell’intestino crasso, che è lungo 2 metri, dove il cibo fermenta e imputridisce, andando a formare l’importantissima microflora batterica intestinale. In questo tratto non solo la carne, ma anche la frutta e la verdura subiscono la stessa sorte, ed è un processo del tutto naturale e necessario per la formazione dei batteri simbionti.
Inoltre, ricordiamo che non siamo in grado di digerire la fibra e la cellulosa, come invece fanno gli erbivori, che a questo proposito sono dotati di più stomaci.
Dunque, anche che i carnivori abbiano l’intestino corto per permettere alla carne di restare in circolo il meno possibile non trova alcun riscontro scientifico. Infatti, il mammifero che ha l’intestino più lungo è il leone marino, che è carnivoro, mentre la salpa, che è un pesce, è l’animale che ha l’intestino più lungo, ed è onnivoro. La lunghezza intestinale non è quindi un buon criterio per la distinzione tra carnivori, erbivori e onnivori.

E qui per adesso mi fermo, in conclusione nulla della fisiologia umana sembra dimostrare che l’uomo non sia onnivoro, ma anzi questo adattamento abbia contribuito in maniera fondamentale al suo sviluppo.


Bibliografia
  1. https://web.archive.org/web/20130723063336/http://library.sandiegozoo.org/factsheets/bonobo/bonobo.htm#6 
  2. Leonardo Ambasciano, Sciamanesimo senza sciamanesimo: Le radici intellettuali del modello sciamanico di Mircea Eliade: evoluzionismo, psicanalisi, te(le)ologia, Edizioni Nuova Cultura, 2014, pag. 158.
  3. http://www.lescienze.it/news/2010/04/27/news/il_senso_della_morte_negli_scimpanze_-556262/
  4. https://www.repubblica.it/ambiente/2017/02/10/news/la_rivolta_degli_scimpanze_contro_il_tiranno_saddam_raro_caso_di_omicidio_e_cannibalismo_fra_primati-158005626/ 
  5. Haenel H, Phylogenesis and nutrition, in Nahrung, vol. 33, nº 9, 1989, pp. 867–87, PMID 2697806. 
  6. F. W. Marlowe, Hunter-gatherers and human evolution, in Evolutionary Anthropology: Issues, News, and Reviews, vol. 14, nº 2, 2005, pp. 54–67. 
  7. Bramble DM, Lieberman DE, Endurance running and the evolution of Homo(PDF), in Nature, vol. 432, nº 7015, novembre 2004, pp. 345–52. 
  8. Francesco Berna, Paul Goldberg, Liora Kolska Horwitz, James Brink, Sharon Holt, Marion Bamford,and Michael Chazan; PNAS Plus: Microstratigraphic evidence of in situ fire in the Acheulean strata of Wonderwerk Cave, Northern Cape province, South Africa PNAS 2012 109 (20) E1215–E1220; published ahead of print April 2, 2012, doi:10.1073/pnas.1117620109.
  9. Ungar, Peter S. Dental topography and diets of Australopithecus afarensis and early Homo. Journal of Human Evolution, 46: 605-622, 2004. 
  10. https://www.newscientist.com/article/dn4122-meat-eating-is-an-old-human-habit/?ignored=irrelevant 
  11. https://archive.archaeology.org/9707/newsbriefs/squash.html
  12. https://www.forumsalute.it/community/forum_78_odontoiatria_generale_e_ortodonzia/thrd_214909_la_dentatura_umana_1.html